Convegno
di Studio “Le montagne dell’anima”
Sant’Oreste, Mt. Soratte, 10 maggio 2002
Giulio
Scoppola
Montagnaterapia: ovvero la cura psicosomatica della montagna
Quattro anni fa il giornalista Matteo Serafin scrisse
un articolo sulla rivista "Famiglia Cristiana" (n°
40/99) dal titolo: "Quando la montagna diventa un aiuto alla
vita". In esso sintetizzava le grandi speranze suscitate dalle
esperienze pilota, riferite ad un convegno di amministratori, operatori
sanitari, guide alpine e giornalisti specializzati a Pinzolo di
Trento. L'articolo ribaltava uno stereotipo frequentemente utilizzato
dai mass-media: dalla "montagna che uccide" alla "montagna
che aiuta a vivere" e che “cura”.
Già alcuni anni prima, nel 1993 presso la ASL RM E, a Roma,
venne realizzato un programma riabilitativo ed un video di presentazione
(proposto in diversi Servizi di Salute Mentale) in cui si mostrava
un progetto di attività di un gruppo di utenti psichiatrici
svolto al di fuori delle mura di un centro diurno psichiatrico.
Ci si riferiva cioè ad un trattamento psicoterapeutico annuale
che si svolgeva in palestra, in piscina ed in montagna e che terminava
con un soggiorno di alcuni giorni in un rifugio del Gran Sasso d’Italia
a 2400 metri di quota (cfr.Progetto Corpo-Mente-Ambiente del Centro
Diurno San Godenzo della ASL RM E).
Prendendo spunto da altre iniziative italiane venne da noi scelta
una efficacissima tecnica: "La videoconfrontazione", (Manghi,
1989-90.) che stimolava quell’importantissimo processo di
acquisizione psicologica della dimensione somatica favorita dalla
visione di ciò che i pazienti erano riusciti (o non riusciti)
a fare durante le attività del progetto Corpo-Mente-Ambiente.
Il corpo impegnato nell’azione veniva videoripreso ed il soggetto,
posto successivamente di fronte al materiale registrato, veniva
sollecitato a mettere in relazione (attraverso le parole) le sensazioni
e le emozioni ricordate con i pensieri attuali, rivedendosi e commentandosi,
ad esempio, nel passaggio di un temuto sentiero alpinistico o nel
raggiungimento di una vetta desiderata.
Ancora un passo indietro: nel 1992 (il 26/11/92)
era apparso un articolo sul "Corriere della Sera" (a firma
Ulderico Munzi) dal titolo: "malati di mente alpinisti per
guarire" in cui veniva fatta conoscere al grande pubblico l'esperienza
del Centro Ospedaliero di "Bel Air" a Charleville-Mézières,
località delle Ardenne in Francia, dove: "a un semplice
e coraggioso infermiere" nel 1984 venne l'idea di "strappare
i suoi malati, tra i quali c'erano alcuni schizofrenici, da quei
padiglioni di ospedale dove vegetavano da anni annichiliti dai tranquillanti
e dal rito manicomiale", portandoli a 2500 metri di quota ed
oltre, dove "l'umanità riaffiorava davanti al pericolo
ed all'imprevisto".
Potremmo ricercare e ritrovare ancora moltissime tracce precedenti,
magari solo nel racconto di appassionati e preparati operatori,
pubblici o privati, singoli o riuniti in associazioni; di attività
e progetti in cui i luoghi naturali non modificati dall’uomo,
la montagna e le attività di montagna, hanno rappresentato
dei veri e propri presidi terapeutici; e non solo per i disturbi
psichici e per i problemi psicologici.
Proviamo allora a pensare il perché.
Il grande filosofo J.P.Sartre nel 1968 diceva che "il criterio
di distinzione tra illusione e realtà è un dubbio
da cui può essere percorso solo un io decorporeizzato, che
non abita il mondo; infatti posso interrogarmi sulla differenza
che separa il reale dall'immaginario solo perché abitando
il mondo già mi sono fatta una esperienza di queste due dimensioni".
Ecco il punto da cui siamo partiti: cosa può essere o tornare
ad essere esperito inizialmente come un "mondo" vivibile
dall'individuo malato nella mente? Cosa può tornare ad essere,
da un punto di vista terapeutico riabilitativo o rieducativo, il
suo originario e primario punto di appoggio?
Gli ampi studi psicologici e psicoanalitici degli ultimi decenni
(cfr.: Bion, Winnicott, Gaddini) ci confermano il ruolo centrale
giocato dalla funzione mentale primitiva, che all’inizio della
vita di ognuno di noi è volta ad organizzare le numerosissime
e marasmatiche sensazioni e percezioni esterne ed interne che dal
corpo si producono ed emergono. Gli stessi studi mostrano le possibili
vie del fallimento evolutivo, nei termini di un cattivo contenimento
delle relazioni affettive ed emozionali delle figure di accudimento;
a volte di esperienze traumatiche che aprono le porte alla patologia
psichica (e forse psicosomatica).
Nella costruzione di queste esperienze fallimentari sappiamo, dalla
anamnesi psicologica, il ruolo avuto dalle persone affettivamente
più importanti; ciò comportando un allontanamento
difensivo (di tipo post-traumatico ?) da successivi coinvolgimenti
affettivi. Possiamo vedere le conseguenze di ciò osservando
nei nostri assistiti una passività esistenziale ed una paralizzazione
della energia vitale che si manifesta soprattutto in ambienti modificati,
controllati, o vissuti permanentemente dall'uomo. Forse per una
estensione massiccia ed arcaica delle difese psicotiche verso tutte
le relazioni potenzialmente traumatiche: in special modo quelle
affettive.
La montagnaterapia propone allora un by-pass che tenti l’accesso
al mentale non più dal mentale ma dal somatico. Una strada
omeopatica di ricategorizzazione sensoriale e percettiva e successivamente
mentale a partire dal “mondo-corpo” e dal “mondo-ambiente”.
Paradossalmente nella montagnaterapia potremmo dire che ad uno stress
interno (il nucleo traumatico) viene sovrapposta una esperienza
che contiene sicuramente alcuni potenziali stressors sensoriali
e psicologici facilmente riconoscibili (pensiamo ad esempio al rischio
di scivolare su un sentiero difficile), ma con cui, in modo protetto
e mediato, poter venire in contatto; con l'obiettivo di una positiva
memorizzazione e integrazione della esperienza.
Nella montagnaterapia, come in altre metodiche a mediazione somatica
e ambientale, concetti come corporeità gruppo e gruppalità
primitiva, che fanno riferimento alle ricerche sugli stati primitivi
del sé quando: "il funzionamento mentale si caratterizza
per la presenza di modalità che sono di tipo gruppale e prevalentemente
simmetriche (…) in cui la parte equivale al tutto e non esiste
distinzione tra dentro e fuori e tra prima e dopo" (L.Scoppola,
1992), appaiono fondamentali per interpretare i fenomeni clinici.
E questo in tutte quelle patologie in cui si osserva, ai differenti
livelli, una interruzione ed una incoerenza del pensiero, del ricordo,
della parola, del comportamento, del movimento. Cioè in quelle
aree primitive del sé dove mente e corpo iniziano il loro
percorso: l’una come funzione dell’altro; risollecitare
quindi il corpo a svolgere funzioni semplici, motivando l’individuo
verso obiettivi concreti, visibili e raggiungibili. Inserendo le
attività di gruppo in un ambiente dotato di potenzialità
evocative e caratterizzato da geometrie “altre”, che
lo caratterizzino come accogliente e che abbia con sé aspetti
stimolanti e mai paralizzanti o terrorizzanti.
Più facilmente un mondo fisico naturale, con poche modificazioni
apportate dall’uomo, in cui tutti siano messi dal contesto
in condizioni di relativa uguaglianza. Nel centro psichiatrico l’operatore
potrebbe dire a se stesso e al paziente: io sono l’esperto
nel vivere e nel relazionarmi con gli altri e con il mondo In montagna
(e in genere nei luoghi naturali) tutti si riscoprono ospiti di
un ambiente che non li rispecchia perché non modificato dall’uomo
e tutti, per definizione, sono inesperti dovendo apprendere le regole
di nuove transazioni caratterizzate fortemente da quell’ambiente
(è l’esempio della solidarietà, in montagna
come in mare, dell’aiuto reciproco in situazioni di difficoltà
o quello dei ritmi di salita e riposo osservati da tutto il gruppo).
Tutti devono confrontarsi e trovare una soluzione agli evidenti
problemi posti dall’ambiente (la protezione dal freddo, dalla
pioggia o dalla neve, l’orientamento, il bisogno di cibo e
acqua…)
La montagnaterapia può allora contrastare
efficacemente le esperienze così ben descritte nella letteratura
psichiatrica di: "discordanza, incoerenza ideo-verbale, ambivalenza
autismo, idee deliranti, profondi disturbi affettivi nel senso del
distacco e della stranezza dei sentimenti" che caratterizzano
l’esperienza psicotica (Ey-Bernard-Brisset, 1987).
Se immaginiamo di essere impegnati in un sentiero che sale verso
orizzonti altri, invece che comodamente seduti a fumare per ore
in una poltrona di un tradizionale centro psichiatrico, possiamo
avvicinarci al senso di questo nuovo approccio terapeutico-riabilitativo.
Con una accezione che nasce legata alla dimensione della salute
mentale e psicosomatica ma che presto potrebbe essere estesa a problematiche
sanitarie differenti ma non meno importanti: penso al campo dell’oncologia
o della cardiologia, per fare due esempi immediati, in cui unire
sinergicamente la dimensione medica e biologica con quella psicologica
ed esistenziale e con quella microsociale del gruppo.
Non si può non ritenere che già in epoche precedenti
gruppi di operatori socio-sanitari, con l'accompagnamento di persone
esperte, si legassero con una corda, reale e psicologica, a gruppi
di pazienti per realizzare progetti in cui la montagna avrebbe via
via rappresentato ambiente e strumento di cura, luogo naturale in
cui poter ri-articolare movimenti fisici e psichici; parte del mondo
facilmente riconoscibile dove poter ri-atterrare in modo pilotato
e morbido provenendo dalla dimensione psicopatologica. Come dice
ancora Sartre: "frequentando il mondo, il corpo non è
mai percorso dal dubbio che la sua percezione possa essere una illusione
rispetto a qualche presunta verità in sé, il mondo
non è ciò che penso ma ciò che vivo, che abito"
(J.P.Sartre, 1968).
Ma come abitare o ri-abitare il mondo? E quale mondo? Unicamente
il mondo della salute mentale? O si può lavorare per una
riabilitazione o rieducazione od educazione che permetta di ri-abitare
un mondo più esteso sia in senso orizzontale che verticale
(e sia in senso psicologico che somatico)? E' non è forse
il corpo la prima parte del mondo fisico da abitare? Nello sviluppo
dell'essere umano è certamente così!
Domande da porsi perché il tipo di cura
in psichiatria rappresenta spesso una scelta dell'ambiente in cui
si vivrà un bel pezzo della vita successiva, in una sorta
di cura interminabile; con quali effetti sulla autostima? E sulla
perdita de capacità cognitive e senso-motorie? Ecco un altro
motivo per proporre allora la frequentazione della montagna dove
il cittadino prima ancora che l’individuo malato può
ritrovare un percorso di separazione e di individuazione. Questo
attraverso una serie di significativi riti di passaggio e di entrata
in una nuova dimensione culturale ed ambientale, prima ancora che
psicologica, e di uscita da quella precedente: la ritualità
della preparazione di una salita alpinistica con la preparazione
dei materiali, degli abiti adatti, del percorso e dei viveri; il
riconoscimento di regole condivise, ad esempio di solidarietà
e prudenza ecc., il riconoscimento dei compagni di avventura; l'abbandono
di molte cose inessenziali e inutili.
Per soffermarmi ancora un poco sulle potenzialità terapeutiche
esistenti nel progetto vorrei sottolineare che nella montagnaterapia
utilizziamo coppie di dimensioni opposte come: orientamento/disorientamento;
vastità/limitatezza spaziali (ad esempio il fuori/dentro
il rifugio); caldo/freddo; fatica/riposo; verticalità/orizzontalità;
luce/buio; linee continue sulle quali muoversi (è il caso
dei sentieri) e linee spezzate sulle quali si potrà tentare
di arrampicarsi per procedere verso una vetta; cuore che batte veloce/lento,
respiro affannato/regolare, le quali solo in questo contesto assumono
una particolare rilevanza. Dimensioni ben percepibili e fruibili
da sperimentare in un ritmo capace di attivarle ma con la attenzione
a non superare le possibilità individuali.
Vorrei ora accennare ai cosiddetti punti ormai
condivisi del protocollo, in particolare ai ruoli di tre figure
di operatori a scopo esemplificativo.
Abbiamo accennato al fatto che la mediazione e quasi l'orientamento
nel gruppo e del gruppo permette all'individuo di tentare un orientamento
nell'ambiente, ma io vorrei proporre più specificamente che
anche il ruolo degli operatori rimanda alla possibilità di
un orientamento. Abbiamo sperimentato in numerose esperienze cliniche
che una dinamica funzionale agli obbiettivi generali della montagnaterapia
debba prevedere ed organizzare la presenza di un operatore
esperto, come ad esempio una Guida Alpina o un Istruttore
di Alpinismo del C.A.I., che conosce l'ambiente ed il terreno di
gioco, e che quindi sa e può prevedere possibilità
e limiti della esperienza. L'esperto non deve essere tuttavia già
a conoscenza degli aspetti che riguardano la relazione, questo per
mantenerlo psicologicamente “indenne” dalle dinamiche,
dalla cultura e dal linguaggio che il gruppo ha acquisito nel tempo.
L'operatore di riferimento invece si pone come
facilitatore di esperienze, di relazioni di processi, partecipando
anch'esso in modo diretto alle dinamiche in cui è coinvolto.
L'operatore o gli operatori in formazione rappresentano
per i pazienti una modalità di presenza psicologica al mondo
senza mediazioni o protezioni offerte dall’esperienza e non
indebolita dalla malattia. Con essa e con essi si attiva un confronto
mediato dall'affetto e dalla progressiva conoscenza e solidarietà
nel corso delle attività giornaliere o nelle esperienze residenziali.
Sono accenni che potremo riprendere quando si teorizzerà
più a fondo su ciò che cura e che educa e, spero,
nel dibattito.
Molte sono le esperienze terapeutico-riabilitative
realizzate in questi anni con l'aiuto della montagna. Alcune, come
quella tutt'ora in corso della Comunità Terapeutica Montesanto
a Roma iniziata nell'agosto del 1997, dotate di continuità,
verifica sistematica e organicità davvero significative.
Altre si stanno progettando come ad esempio nella ASL RM B o a Frascati;
altre ancora si stanno svolgendo efficacemente come nella ASL di
Rieti; molte altre sono meno strutturate e visibili ma non per questo
meno significative (solo per rimanere nel territorio regionale).
Di alcune di queste avrete modo di conoscere i dettagli durante
il convegno.
Dopo il seminario "Il Monte Analogo, la montagna
come sfondo terapeutico e rieducativo" che si è svolto
nella sede della Comunità Montesanto della ASL RM E nel 1999,
e l'incontro di presentazione della interessantissima esperienza
di Alberto Rubino e del suo viaggio in Himalaya, l'anno scorso,
e dopo il seminario di studio "Curare a Cielo Aperto"
del Giugno 2001 ospiti del C.A.I. di Roma abbiamo costituito un
"Gruppo di Lavoro per la Montagnaterapia", formato dal
CAI Roma da alcuni Dipartimenti di Salute Mentale di AA.SS.LL. del
Lazio e dall'Area di Psicosomatica e Psicologia Ospedaliera della
ASL RM E. Esso sta lavorando con continuità occupandosi della
promozione di nuovi gruppi terapeutici e riabilitativi e curando
di far conoscere questo approccio al grande pubblico tramite articoli
sulle principali riviste, interviste ed altro. Parallelamente stiamo
lavorando per definire meglio l’assetto teorico del nostro
modello, per reperire materiale scientifico e prevediamo che questa
prima fase si concluderà a fine giugno con il seminario teorico
interno del Gruppo di lavoro. Sono in atto le supervisioni per quei
progetti già operanti e si sta organizzando un primo momento
di formazione per operatori. Esiste, è inutile nasconderlo,
anche per la montagnaterapia, come per tutte le altre terapie e
approcci riabilitativi il problema della verifica e della comunicazione
scientifica dei risultati. A questo proposito possiamo dire che
per ora parlano a nostro favore accreditandoci nel campo sanitario
le innumerevoli relazioni e cartelle cliniche e riunioni fra operatori
che hanno osservato e commentato l’efficacia dei risultati
clinici.
Ci riproponiamo di costruire un modello più complesso e condiviso
rispetto agli attuali punti teorici del protocollo ed un sistema
di valutazione dei risultati che rappresentino il passaggio dal
momento della sperimentazione a quello del lavoro vero e proprio.
Vorrei terminare dicendo che proponiamo la montagnaterapia
perché i contesti abituali di cura, specialmente nella grande
città, non permettono di surrogare e sostituire le potenzialità
intrinseche di una serie di stimoli e occasioni presenti naturalmente
nell'ambiente montano. Se osserviamo la città e l'ambiente
urbanizzato dove viviamo e lavoriamo, con la quotidiana sovraesposizione
a rumori luci e relazioni, con i tempi contratti non più
misurati dai passi (che non riusciamo più a fare), possiamo
capire che la montagnaterapia nasce e si appoggia alla naturale
necessità dell'uomo, sano prima ancora che malato, di ritrovarsi
rispecchiandosi in luoghi naturali che gli sono da sempre stati
propri. Laddove la complessità e talvolta contradditorietà
degli stimoli della città cede il campo alla limitatezza
di alcuni elementi (la vetta, il rifugio, il sentiero, l'alpeggio,
il pascolo, l’altro compagno) dotati di maggiore intensità
evocativa, di una temporalità vissuta in modo meno stressante
e di una spazialità sgombra da alcune temute relazioni, da
integrare con nuove storie, memorie e affetti.
Da li ripartire per un processo terapeutico che attraverso un possibile
nuovo riconoscimento di differenze esistenziali conduca ad una nuova
scelta: probabilmente quella di esserci ancora nel mondo.
Credo, da ultimo, che anche la montagnaterapia
potrà trovare posto accanto e in integrazione con altre metodiche
cliniche che negli ultimi decenni, o già da molto tempo,
popolano l'affollatissima galassia delle terapie nel campo psicologico-psichiatrico
o genericamente in quello sociosanitario: ad esempio la musicoterapia,
l'hyppoterapia, l'helioterapia, la thalassoterapia ecc.
Un ultimo accenno per gli amministratori sui costi
di questo approccio: praticamente ridotti agli stipendi del personale
(ma attenzione a spedire in montagna anche i dottori!), ai costi
dei rifugi, ai mezzi di trasporto e a poco altro; ma soprattutto
si dovranno confrontare con il “costo” di tollerare
e far tollerare che i propri operatori lavorino con efficacia efficienza
e passione anche al di fuori delle tradizionali mura, anche culturali
e commerciali, della psichiatria, che tutto ingabbiano e paralizzano.
Ed è per questa opportunità di comunicazione su un
tema a me molto caro che rivolgo un grazie di cuore al Dr. Maurizio
Munelli, con cui vent’anni fa condivisi i prematuri germi
di questo prezioso discorso e che ora ringrazio per il coraggio
e la fatica di portarci in questo meraviglioso luogo per iniziare
a discutere con amministratori ed operatori sui nuovi approcci alla
salute psico-fisica sociale e spirituale dei nostri utenti.
Grazie a tutti voi.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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psichiatria, Masson, Milano 1987.
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Rivista di Psicoanalisi, numero monografico dedicato a W.R.BION,
Il Pensiero Scientifico, Roma 1982.
Scoppola L., Il somatico e lo psichico, Teda, Castrovillari
(CS) 1990.
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