Convegno
di Studio “Le montagne dell’anima”
Sant’Oreste, Mt. Soratte, 10 maggio 2002
Dino Ermini
“Propedeutica ad una
spedizione di utenti del DSM sul Gran Sasso d’Italia”
(La spedizione è stata spostata per cause metereologiche
sul monte Terminillo in località Valle del Sole, m.1920 s.l.m.
nei giorni 6 e 7 luglio 2002).
Chiunque abbia camminato in montagna sa che il
raggiungimento della cima, non significa solamente un esercizio
fisico più o meno tonificante o faticoso ma,rappresenta anche
un inspiegabile piacere di un assoluto coinvolgimento con l’ambiente
circostante.
Tale coinvolgimento abbiamo iniziato a provarlo proprio qui sul
monte Soratte,quando sul finire dell’agosto del 1997 abbiamo
compiuto la prima escursione della nostra storia di gruppo escursionistico.
Un’avventura nata quasi per caso,spinti dalla necessità
di sfuggire alla calura ed alla noia di un sabato cittadino vissuto
in una comunità terapeutica.
Da allora sono continuate le escursioni con un ritmo mensile. Ogni
anno sono stati effettuati dei soggiorni estivi in località
montane: a Civitella Alfedena nel Parco Nazionale d’Abruzzo,
nei pressi della Marmolada sulle Dolomiti, a Cogolo di Peio nel
Parco dello Stelvio.
Abbiamo alloggiato in appartamenti e in albergo, quest’anno
optiamo per una scelta logistica diversa e più impegnativa,
la tenda in campeggio libero in montagna.
Per comprendere tale scelta è necessario rifarsi alla nostra
storia e soprattutto alla riflessione che n’è scaturita.
Riteniamo la montagna uno sfondo interagente con il sé, uno
sfondo assolutamente non neutro. Esso permette di ascoltarsi e vedersi
più facilmente che in città. Le dissonanze urbane
limitano in modo considerevole la propriocezione, disturbando una
corretta relazione corpo-mente già compromessa dalla psicosi.
L’ambiente montano, nella nostra valutazione, diviene stimolo
per gioco ed avventura facilitando la verifica e la riscoperta del
sé e consentendo una dilatazione del proprio campo esperienziale.
In un utente psichiatrico, abbiamo notato, ciò induce una
maggiore capacità di giudizio sul reale; una realtà
semplice, facile da percepire nelle sue dimensioni sensoriali, in
particolare quelle spazio-temporali.
L’esperienza in natura è densa di valore simbolico,
si pensi per esempio alla capacità di orientarsi, al provare
una frustrazione dovuta ad un limite fisico, oppure alla soddisfazione
di raggiungere una meta, alla capacità di progettazione ed
organizzazione di un’escursione, all’essere in grado
di scegliere un abbigliamento adeguato.
La montagna stimola il senso di socialità secondo la quale
la vita in gruppo va completamente ripensata. L’altro da noi
può diventare qualcuno da aiutare o dal quale essere aiutato
in esperienze semplici (concettualmente) come superare un ostacolo
fisico. In tale ambiente vige la necessità di far convivere
aspetti straordinari, l’avventura, con quelli ordinari, la
quotidianità.
La relazione con l’ambiente naturale diviene un apprendimento,
valido per attivare o riattivare rapporti e connessioni da trasferire
nei luoghi e nelle situazioni ordinarie di vita del paziente, consentendogli
di passare dalla paura del proprio mondo esterno e interno o almeno
di attenuarne l’impatto, all'autostima per aver raggiunto
obiettivi condivisi.
Ovviamente non crediamo che l’ambiente alpino di per sé
sia terapeutico, anzi può aumentare il livello di angoscia
o ansia per chi lo frequenti. Assume valenza positiva se, soprattutto
in campo psichiatrico, si è capaci di far risaltare le analogie
simboliche con la vita e declinare fattualmente quanto detto prima,
o per dirlo in termini montanari se si ”attrezza la salita”.
A tal fine occorre un’azione consapevole e pienamente intenzionale
degli operatori preposti al compito. Noi ci siamo proposti come
medium, mediatori tra le istanze psico-fisiche degli utenti e la
complessità dell’ambiente montano. Abbiamo instaurato
una relazione con gli utenti fondata su aspetti di condivisione
dell’esperienza e non di adattamento passivo, di tolleranza
più che di contenimento. Condividere ha significato non proporsi
come guide alpine ma comune affidarsi agli esperti del settore e
quindi rimandare alla “non-onnipotenza” degli operatori
che invece hanno mediato tra i saperi degli esperti e i bisogni
psico-fisici degli utenti. Abbiamo tradotto e adattato il linguaggio
“tecnico” delle guide alpine al linguaggio emotivo e
alle necessità cognitive degli utenti.
Altro livello di condivisione è stato quello offerto dalle
reazioni del corpo alla fatica. Gli operatori non hanno esitato
a mostrarsi stanchi e assetati, verbalizzando tali sensazioni ed
evitando di ”liberarsi artificialmente del corpo e dai suoi
bisogni, dalla sua vita senso emozionale e istintiva”.
Tutta la nostra esperienza fa riferimento ad un vissuto di condivisione
che nasce dal lavorare quotidianamente in comunità, nella
fattispecie nella Comunità terapeutica riabilitativa ”Monte
Santo”. Da questa vita in comune siamo partiti per la nostra
esperienza in montagna. Non avevamo nessun modello di riferimento
se non il nostro quotidiano e un interesse sostanziale per la montagna.
Basilare nella nostra convivenza è stato lo scoprire, nella
pratica, che l’ambiente sereno è sfondo ineludibile
per il passaggio e l’acquisizione di conoscenze.
Il “vivere con” ci porta a grandi implicazioni emotive,
l’esserne consci ci permette però di operare per un
distanziamento che coniuga spontaneità con intenzionalità,
capacità questa che nell’utenza psichiatrica è
spesso assente o soprabbondante.
La condivisione ci ha permesso di affrontare situazioni complesse,
dal punto di vista relazionale, durante la nostra pratica escursionistica.
Per esempio il saper riconoscere i nostri limiti e abbandonare un’impresa
perché il tempo non lo permetteva, o essere accurati nella
preparazione di un’escursione spendendo tempo e risorse nel
procurarsi e addestrarsi nell’uso dell’attrezzatura,
modulando l’ansia senza bruciare i tempi. Questo perché
i vari passaggi erano stati costruiti insieme e solo quando erano
acquisiti da tutto il gruppo si passava al passaggio successivo.
Ciò ha reso gli operatori affidabili per gli utenti e questi
per gli operatori, aumentando così la capacità di
affrontare situazioni complesse.
E’ chiaro da quanto sopra descritto che la ”condivisione”
è qui intesa non come una dimensione etica ma, come dimensione
educativa, la più favorevole al passaggio di saperi, esperienze,
emotività, da operatore a utente e viceversa.Si crea così
un’entità nuova, il gruppo,in cui non ci si distingue
quasi più tra utenti e operatori, ma ci si riconosce come
”montanari”, ognuno con specifiche proprietà.
Il percorso di autonomia, già iniziato in comunità,
si è quindi potuto verificare in quello che chiamiamo ”campo
aperto”, l’ambiente montano, ricco di situazioni al
limite. Non casualmente Antonello Correale, nel convegno svoltosi
l’anno scorso nella sede del C.A.I. di Roma ”Curare
a cielo aperto, la montagna come risorsa psicosociale trasformativa”
parlava dell’infinitezza della montagna, ponendola in relazione
con l’infinitezza del delirio psicotico ma definendo la prima
come “infinitezza sostenibile” da offrire come succedaneo
al paziente psichiatrico. Ad essa ci siamo rapportati con una struttura
organizzativa e una pratica, ambedue pensate in base all'esperienza
vissuta. Un’esperienza graduale e graduata, fondata su un
condiviso senso della realtà che permette anche di superare
quei momenti incongrui di delirio che pure alcuni utenti a volte
provano.
In questo quadro dunque si colloca la scelta di allestire una piccola
spedizione in, relativamente, alta quota. Punto di arrivo di un
percorso ininterrotto per tappe (scusate l’ossimoro), sperimentazione
di un’autonomia personale e di gruppo ove verificheremo la
qualità delle nostre relazioni, la capacità di far
fronte all’imprevisto. Evento questo, contemplato da utenti
e operatori, nonostante un’organizzazione dell’evento
razionale e puntuale, ma non ossessiva e totalizzante. Siamo consci
che per governarlo dovremo ristrutturare e riancorare gli schemi
di percezione e di azione, cercando di adattare questa all'’intenzione.
Certamente l’evento straordinario può metterci in crisi.
Sappiamo, però, che è tale in quanto esiste un ‘ordinario’
e questo riusciamo, bene o male, a gestirlo, educati da una lunga
pratica di vita quotidiana in comune.
Questa spedizione è punto di partenza, non per quote più
alte, perché non ci interessa la performance, ma verso maggiori
momenti di integrazione sociale e di restituzione di saperi che
abbiamo acquisito in questi anni. Pensiamo di essere in grado di
gestire un piccolo spazio montano, un rifugio per esempio, curare
la manutenzione di sentieri, proteggere e conservare quell’ambiente
che così tanto ci ha dato.
Bibliografia essenziale
Correale A., “L’infinitezza della montagna
come infinitezza sostenibile”. Atti del convegno: Curare a
cielo aperto, la montagna come risorsa psicosociale trasformativa(in
via di pubblicazione), Roma 2001
Catozzi F., Tulli P., ”Alcune riflessioni
sul ruolo dell’educatore all'’interno di un servizio
dipartimentale di salute mentale”. Quaderni SFEC,n.3,pagg.5-16,Edizioni
Seam, Roma 1993
Fadda R., ”Spunti per un’integrazione
critica tra teoria pedagogica e psichiatrica”, Gli incontri
mancati. Materiali per la formazione del pedagogista, O.De Sanctis,
R.Fadda, E.Frauenfelder ,A.Porcheddu
Lombardi R.,”Libertà del corpo e libertà
dal corpo”, Montag, n.3,pagg.133-143,Edizioni Fahrenheit 451,
Roma1997.
Priorini P., Attività estreme e stati alterati
di coscienza, Carabà, Milano 2001.
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