Enrico Bernieri
Uomini di pietra
1995

Scegliere un sasso largo e piatto. Raccoglierne un altro un po' più stretto
e poggiarvelo sopra. Cercare ancora un altro sasso, ancora più stretto, e
metterlo sul secondo. Così via, fino all'ultima piccola pietra deposta
sulla sommità della piramide.
In questo tempo moderno, scandito da gesti indiretti, dove tutto avviene
per intermediazione - si tratti di pulsanti, segreterie telefoniche,
telecomandi, insalate prelavate, minestre liofilizzate, tastiere, topi o
luoghi comuni - mi ritrovavo a fare l'azione forse più elementare e antica
del mondo: mettere una pietra sull'altra. Per compierla, ero dovuto andare
diecimila chilometri lontano, sulla morena di un ghiacciaio nella cui
storia c'erano assai pochi incontri. Certo, per eseguire gli stessi gesti
sarebbe bastato recarsi in qualsiasi campagna un po' sassosa, ai margini
delle colline, appena fuori dalla periferia. Ma in quel contesto sarebbe
stata solo un'azione teatrale, al più un singolare rito. Laggiù, sulla
morena del ghiacciaio, a cinquemila metri nella troposfera, quei gesti
erano necessari, servivano a indicarci la strada, a individuare un cammino.

“Ne costruiamo un altro qui...”
Mario si ferma e resta a lungo appoggiato ai bastoncini. Ascolto il suo
respiro affannato riprendere lentamente un ritmo normale. Il battito sordo
del cuore, il flusso del respiro, la successione dei passi. Bisogna avere
orecchio, accordarli insieme, qualunque stonatura si sconta in fiato
quassù. Mario aspetta il tempo giusto, poi solleva lo sguardo e, solo con
quello, enuncia la sua battuta: “non hai niente di meglio a cui pensare?”
Ormai c'intendiamo al lampo d'un minimo segno. In queste settimane, dopo
aver ridotto all'essenziale i gesti, abbiamo imparato a risparmiare le
parole, trasferito la lentezza imposta dalla rarefazione anche al cervello.
Per noi occidentali, quest'apnea della mente all'inizio è sconcertante, ma
poi ti accorgi che a una cosa per volta si pensa meglio. E non è un segreto
dell'oriente ma solo la riscoperta di una fisiologia più sana.
Siamo stanchi. Desideriamo solo approdare al campo avanzato, la nostra
piccola isola nel mare dei ghiacci, e svuotare il fardello degli zaini. Ma
l'ultimo ometto è laggiù, molto dietro di noi, appena prima che la morena
lasci spazio alla lingua glaciale. Tre giorni fa, proprio in quel punto,
abbiamo sbagliato, ci siamo infilati in un interminabile e massacrante
saliscendi tra onde successive di ghiaccio e pietra. Stavolta voglio
segnare il percorso, quello giusto che abbiamo scoperto al ritorno, evitare
che qualcuno di noi, confuso da nebbia e stanchezza, commetta di nuovo lo
stesso errore.
Sollevo una pesante lastra di granito grigio e la lascio cadere sulla testa
rossastra di un fungo, una di quelle strutture marziane che si formano sui
ghiacciai, quando una roccia protegge il ghiaccio dall'irraggiamento solare
rallentandone lo scioglimento. Resta così un gambo glaciale col cappello di
pietra. Valuto la consistenza del gambo: per qualche giorno reggerà,
l'ometto non scivolerà giù tanto presto. Mentre pago in affanno il prezzo
dello sforzo mi guardo intorno. Siamo finiti in uno dei mondi creati da
Carroll per Alice, circondati da centinaia di questi funghi dal gambo di
ghiaccio e dalla rocciosa testa piatta, alcuni alti appena un palmo, altri
il doppio di noi. Penso che se trovassimo quello giusto potremmo mangiarne
un pezzo, diventare giganti e colmare in un sol passo la distanza che ci
separa dal campo.

Qualcosa mi sfiora. Indifferente alla fungaia pietrificata, Mario ha deciso
di aiutarmi e mi porge un bel sasso scuro e piatto.
In alto, dove il ghiacciaio si frange nei seracchi, tutto è nascosto dalla
nebbia. In questi giorni la Montagna si è concessa assai poco ai nostri
sguardi. A volte ci sembra di muovere verso un sogno, un'immagine onirica,
una realtà virtuale prodotta dai circuiti del nostro cervello deossigenato,
piuttosto che verso la presenza tangibile, concreta, dura, di una montagna.
A volte, sollevando lo sguardo dalla monotonia dei passi, ci attanaglia la
sensazione di essere in un'altra dimensione, di essere finiti senza
accorgercene in un universo fatto solo di bianco, in cui nemmeno lo spazio
e il tempo ci sono familiari. A volte non pensiamo nulla: solo fatica, e
basta.
L'ometto è finito. Come due pigri muli riprendiamo lentamente il cammino.

I conquistatori dell'inutile, così li chiamava Lionel Terray. Li
riconosciamo facilmente come tali gli alpinisti. Noi, che saliamo su di una
vetta, magari per la strada più difficile, per poi scendere, e ricominciare
daccapo. Ognuno al suo livello, accordandosi alle proprie affinità, ai
propri gusti. Distillato dalle gare, dai primati, dalle esibizioni, quello
che resta, dopo anni di salite e discese, è un percorso che riguarda
soprattutto le viscere. Un cammino accanto alla fatica, sempre diversa da
come la narriamo, un dialogo con la paura, sempre distante da come la
descriviamo. La raccontiamo tra le righe, attenti a evitare il suo sguardo
diretto.

Stavo per morire. Era sicuro, sicuro!... O per lo meno mi sarei fatto male.
Molto male! Guardavo la corda penzolare per almeno quindici metri sotto di
me. Passava attraverso un rinvio agganciato a un nut precariamente
incastrato dietro una scaglia e, con un ultimo arco, finiva nelle mani del
mio compagno di cordata. Se ne stava muto, lanciando occhiate inquiete a
me e alla sosta. Non andavo né avanti né indietro. I polpacci erano in fiamme. Le tre dita, con le quali artigliavo un buco svasato e sempre più
scivoloso, cominciavano a stancarsi. Non vedevo vie d'uscita. Tra breve le
dita avrebbero ceduto e mi sarei inesorabilmente schiantato sulla cengia,
quindici metri più sotto. Ero fradicio di sudore. Con la mano sinistra
continuavo a tastare inutilmente lo stesso metro quadro di roccia alla
ricerca di un'inesistente appiglio. Rabbia e terrore si aggrovigliavano
come freddi serpenti ingarbugliandomi viscere e mente. Non riuscivo a
venirne fuori. Era finita. Tra un attimo sarei precipitato.
“Siamo messi male, eh!”
Mi voltai, sorpreso dal vocione proveniente da sinistra. Fissai un volto
paffuto, che mi guardava con aria divertita da una decina di metri di
distanza. Non mi ero mai immaginato un angelo così robusto, senza ali e con
una corda attaccata in vita. Ma era un angelo, senz'altro. Salvami. Ti
prego, salvami!
“Credo di aver sbagliato via...” farfugliai invece.
“Mi sa proprio... ti serve una mano?”
Una mano! Certo che mi serve una mano! Passami una corda, qualcosa, prima
che sia troppo tardi! Sbrigati! Ma l'orgoglio dell'alpinista è più duro a
morire del suo padrone:
“Non è che potresti dare un occhiata? Magari dall'alto riesci a vedere se
c'è un appiglio...”

Lui urlò qualcosa al compagno di cordata, che lo recuperava dalla sosta più
in alto, e cominciò a traversare sopra di me. Scrutava con sguardo attento
la placca che mi sovrastava. Io seguivo quello sguardo come se fosse stato
quello di un medico, che scorre le analisi cliniche di un caso disperato e
sta per pronunciare il verdetto. Per un attimo dimenticai il dolore ai
polpacci, le dita indolenzite, la paura, il vuoto, i serpenti.
“Forse sulla tua destra... un metro più in alto, c'è una buona maniglia”.
Non potevo vederla. Tra me e lei c'era una placca strapiombante sulla quale
non mi sarei mai avventurato. Un metro. A destra. Se avessi trovato
qualcosa d'intermedio. C'era... un buco svasato. Forse bastava tenerlo per
il tempo di un veloce passo in aderenza e avrei afferrato la maniglia.
“Sei sicuro...?”
“Si, ora lo vedo bene. C'è un appiglio molto netto, anche meno di un metro
sopra di te, appena a destra”.
Seguii la direzione del suo sguardo come se fosse stato un radar di
precisione. Potevo farcela... il buco con la sinistra, un passo,
l'appiglio... partii prima ancora di decidere. Il mio corpo si mosse da
solo. Infilai le dita sudate nel buco. Traversai. Le dita iniziarono a
scivolare. Dovete tenere, tenere! Un passo. Cristo, sto per cadere...
lancio... preso!
L'avevo presa. Una manigliona, un'oasi, la salvezza! Rapidamente montai coi
piedi sull'esilissima cengia che avevo afferrato con le mani. Restai
qualche minuto con la faccia appoggiata alla roccia fredda a ingurgitare
arie e sputare spavento. Cara pietra, come le volevo bene, figlia del mare,
mamma dei torrenti, sorellina cara... si fa in fretta a passare dall'odio
all'amore. Ripreso fiato mi guardai attorno. Vicino alla mia faccia c'era
una stretta fessura dall'aria promettente. Infilai un chiodo, lo martellai
dentro fino all'anello, con violenza esagerata. Moschettone. Corda. Ero
salvo.
A quel punto mi ricordai dell'angelo. Era sparito. Doveva essere ritornato
in paradiso. Forse avrei dovuto rammentare qualche vecchia preghiera per
ringraziarlo, ma non fu necessario. Un vocione mi fece girare verso l'alto.
L'angelo si era fermato un po' prima del paradiso. Dalla sosta un grossa
mano si agitava nell'aria in segno di saluto. Così avevo conosciuto Mario e
la nostra futura amicizia: arrampicando nell'inutilità del rischio.

Anche di una spedizione alpinistica quel che resta è l'inutile. L'inutile
di una fatica rantolante sotto il macigno dello zaino, l'inutile del
confine di una vetta che per un attimo c'illude del cielo, l'inutile di una
storia sempre troppo pesante rispetto alla distillazione delle altezze.
Inutili sono i gesti compiuti costruendo uomini di pietra. I movimenti del
ghiacciaio li distruggeranno per sempre in poche settimane. Sono i gesti
più inutili di tutti, quelli indimenticabili.

Inutile singolare, inutile di confine. Quanto ‘inutile’ riempie di qualità
la nostra vita? L'inutile di un buon vino, l'inutile di una bella musica,
l'inutile di un film appassionante o di un romanzo, l'inutile di una serata
passata con gli amici. Ma perché qualcuno sceglie ‘questo’ inutile,
l'inutile di una pratica che ci fa viaggiare sul filo, che tante volte ci
porta al limite, sulla frontiera? Qualcuno ha cercato risposte nella
storia, altri nella sociologia, altri ancora nelle leggi della mente. Mi
viene qui da far menzione della singolare ipotesi che vi sia teologia in
quello che facciamo. Ho letto di un Salmo in cui si dice che “Dio li
condusse al suo confine santo”. E' questo, è il confine santo, che ci
risucchia, che costantemente si allontana quando stiamo per raggiungerlo?
Non so. Se così sia si può sapere forse solo al termine di un viaggio senza
ritorno.

“Ne costruirei un altro qui”.
Sgravato dal carico che abbiamo lasciato al campo alto, Mario questa volta
non fa obiezioni. Ci fermiamo sulla sommità di un'ampia cresta del
ghiacciaio. In giorni di va' e vieni tra il campo base e quello avanzato,
abbiamo individuato quello che sembra il percorso di minimo sforzo tra i
due, la linea ideale che li congiunge con minore fatica, la geodetica di
questo universo. Non ci sono strade qui e neppure viottoli, sentieri,
tracce lasciate dall'uomo con il suo passaggio. Ci è toccato fare quello
che per noi, nei nostri paesi, nelle città, nelle valli, hanno fatto per
secoli quelli che ci hanno preceduto: trovare la strada migliore che
collega due punti, la più conveniente, la più rapida, la più sicura. Non è
materia scolastica questa, la s'impara a proprie spese, di fatiche e
d'errori, di rotte perdute.
Non abbiamo fretta, Il percorso fino al campo è senza problemi e la nostra
attenzione si rilassa, si espande, si distende sulle pietre. Ce n'è
un'infinità a punteggiare la superficie del ghiacciaio. Roccia, materia
morta. La prima cosa che una mano primitiva ha afferrato. Ha stretto quel
minerale dandogli vita, energia. E forse con quella pietra resa viva ha
strappato la vita a un altro essere. Pietra, materia amorfa, ma a volte
l'unica in grado di squarciare il velo sottile che la mente stende sulle
cose. Potremmo fermarci qui un po' più a lungo, trasformarci in giardinieri
di questo campo di pietre, apprendere le stagioni che governano le ossa del
pianeta. Ci sono pietre grigie e pietre nere, pietre lisce e pietre scabre,
pietre multicolori e pietre d'un colore solo. Ci sono pietre aguzze e
pietre tonde, pietre geometriche e pietre irregolari. E ci sono pietre che
non ho mai visto da nessuna parte.
Mi fermo a osservarne una. E' di un bel giallo ocra, attraversata al centro
da un filone di metallo dorato. La mostro a Mario: “Sarà oro?”
“Al massimo pirite... ma guarda questa”. E mi allunga una pietra liscia e
piatta, perfettamente circolare. E' di colore viola e al centro c'è
un'inclusione chiara che assomiglia a un occhio: due sottili semicerchi che
si toccano alle estremità e in mezzo un piccolo disco bianco.
“E' bellissima!” esclamo.
Mario la soppesa.
“Chissà, forse questa sarei riuscito a farla saltare anch'io...”
Lo guardo interrogativamente.
“Hai mai provato a far saltare le pietre sull'acqua?”
“Si...”
“Anch'io, ma senza riuscirci. Era uno dei passatempi del tardo pomeriggio,
al mare, durante le vacanze, quando il vento calava e le onde increspavano
appena la superficie. Tra ragazzi ci sfidavamo a far saltare le pietre
sull'acqua. Il lanciatore che faceva fare più salti alla sua pietra aveva
vinto. Mi ricordo di una pietra che fece ben tredici salti. Pensa, tredici
salti! Forse era record mondiale. Io non sono mai riuscito a farla saltare
più di due volte. Eppure le sceglievo bene le pietre: lisce, piatte, come
dovevano essere. Ma niente da fare. Pluf, e sparivano subito sott'acqua.
Forse era il modo con cui le lanciavo... forse goffaggine. Mi prendevano in
giro per questo, imitando un'andatura pesante e un braccio anchilosato. E
così capitava che me ne stessi in disparte - mentre loro lanciavano,
urlavano, si sfidavano - provando e riprovando per conto mio. Fu una di
quelle volte che conobbi Marina. Mi si avvicinò lei, forse incuriosita dal
mio isolamento...”
E Mario mi racconta una storia. Una storia d'amore. Ci sono pochi luoghi
che si prestano al racconto delle origini, delle origini dei segni che ci
portiamo addosso, pochi luoghi in cui il racconto fa luccicare il mistero
senza violarlo, senza renderlo irrimediabilmente prosa. Questo è uno di
essi. Qui le parole non hanno testimoni, ignorano finanche chi le pronuncia
e chi le ascolta, è come se non ci fossero mai state, semplicemente i segni
lasciano la loro impronta, sono rughe, smorfie, occhiate.
Stiamo per rimetterci in cammino. La storia è finita. Finita? Osservo
Mario collocare la sua pietra sulla pila delle altre. Gli tremano un po' le
mani. Ma sono convinto che se la lanciasse adesso, quella pietra
comincerebbe a saltare, saltare, saltare, senza fermarsi più.

Qui tutto si riduce all'essenziale: sassi, gesti. Semplici sassi, semplici
gesti. Gesti nucleari. Gli ‘ometti’ sono infatti ‘Ker’ in qualche antica
lingua del nostro continente, e ker-nel significa anche nucleo. Come i
nuclei degli atomi, o i kernel inventati dai matematici, che posseggono la
straordinaria proprietà di restare inalterati nelle trasformazioni più
complicate, anch'essi fungono da riferimento stabile, costituito da
elementi essenziali.
Ancora al campo base la tecnologia di una tenda ci riporta al mondo da cui
proveniamo. Oltre i confini del ghiacciaio, sulla montagna, entriamo in un
mondo limbico, da cui riporteremo solo vaghi balbettii. Ma il percorso che
collega questi mondi, fatto di Ker, segna in maniera essenziale la linea di
un passaggio.
E' un'emozione che resta, questa di segnare un percorso con la pietra.
Un'azione che evoca più di tutte il senso di un'esplorazione primitiva, in
cui la prima esigenza è quella di stabilire un riferimento, un
indispensabile filo di Arianna, in un territorio sconosciuto.

“Ti ho mai raccontato di mia nonna Clotilde?”
Siamo seduti accanto alla tenda del nostro piccolo campo aspettando che
bolla l'acqua per il tè.
“Nonna Clotilde faceva la tessitrice. Con questa stoffa, diceva, non sarò
io a confezionarvi i vestiti, e neppure ve li farò dismettere perché li
avrete consumati. E chi sarà, nonna, chi sarà, le chiedevamo. Sarà la
mamma, papà, la zia Eudora? Ma lei scuoteva il capo. Saranno due vecchine
che ancora non conoscete. E ci narrava di queste due vecchine. La prima
viveva nel bosco e decideva per ognuno quali e quanti vestiti gli sarebbero
spettati. La seconda viveva in fondo allo stagno e dissolveva ogni tessuto
che giungeva laggiù... Il resto non lo ricordo. Ma questa storia mi ritorna
ogni tanto in mente, soprattutto quando sono in un posto sconosciuto,
quando sbaglio strada e non so dove andare, quando non so quale sarà il
prossimo passo”. E lo sguardo di Mario si perde nel blu che ci circonda e
infittisce.
Quaggiù, quando cala la notte, si capisce bene come sia banale perdersi,
come sia facile perdere il filo se non si conosce il cielo. Eppure siamo
sul filo molto più frequentemente di quello che crediamo. Guidiamo l'automobile a cento all'ora mentre un TIR arriva sulla corsia opposta. Basterebbe un piccolo movimento, spostare il volante di pochi centimetri, fare un gesto che ha bisogno di una frazione di secondo e... Innumerevoli volte siamo in situazioni simili. Acrobati sulla fune sospesa. A volte mi sembra che sia così sempre, ma che come una nebbia ce l'offuschi. Forse per questo ci affanniamo a salire così in alto, per tirarci su da quella nebbia?
Vaghiamo in certe notti perché non si narrano più storie stellate, storie
di tele, stoffe e drappi scuri.

Prima di metterci nelle mani delle due vecchine, alla base dei primi grandi
crepacci, costruiamo un altro ometto. E' l'ultimo. Ci aspetta un mondo di
entità effimere, di ghiaccio verde e roccia scura. Prima di penetrarvi
lasciamo quest'ultimo segno. Lo costruiamo con cura, scegliendo bene le
pietre. Forse qui non occorre nemmeno, il passaggio tra i seracchi è
obbligato e sappiamo che sapremmo orientarci. Ma ci siamo fermati lo stesso
a mettere un sasso sull'altro. Che sarà della nostra azione futura, quale
sarà il suo esito, non sappiamo. Ma qui e ora abbiamo bisogno di un
testimone, che assista alla nostra partenza, che attenda un ritorno.
Così, rispondendo a questa esigenza primaria, ritrovavamo le condizioni di
un gesto semplice, elementare, primordiale. Un gesto che non solo segna un
percorso, ma che è anche un puro segno nel senso voluto da Agostino:
qualcosa che fa venire in mente qualcos'altro al di là dell'impressione che
la cosa stessa fa sui nostri sensi. Spostavamo i frammenti di quella che
era una volta una montagna, per costruirne un simulacro. Per costruirla
dentro di noi, inutile, di pietra, prima di salirla.

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